giovedì 9 maggio 2013

Una "via dello sviluppo" per uscire dalla grande crisi

In occasione dell'Assemblea di Rete imprese Italia è stata presentata un'indagine realizzata dal Cer – Centro Europa Ricerche sull'impatto della crisi su crescita e competitività e sulle sue ripercussioni sull'economia reale. La recessione che stiamo vivendo è diventata più profonda e lunga di quelle del secolo scorso. Rilancio di consumi e investimenti le ricette per provare a ripartire.




 La recessione che stiamo vivendo è diventata più profonda e lunga di quelle del secolo scorso, avendo superato anche il drammatico episodio degli anni Trenta. Allora furono sufficienti 6 anni per ripristinare i valori di prodotto pre-crisi, oggi, secondo le previsioni governative, non saranno sufficienti dieci anni. Netta è poi la differenza rispetto alle recessioni del 1975 e del 1992: nello stesso arco di tempo trascorso dall'avvio della recessione corrente (6 anni) il Pil aveva già registrato aumenti di oltre 20 punti nel 1975 e di quasi 10 punti nel 1992. Su questo sfondo, la contabilità della crisi è sintetizzata dal fatto che a fine 2013 la perdita di prodotto reale rispetto al 2007 si avvia a raggiungere i 121 miliardi di euro (-8,1% e che nel 2017 si prevede un livello del prodotto reale ancora molto inferiore ai valori del 2007 (-2,9%). Questa "l'introduzione" dell'indagine realizzata dal Cer – Centro Europa Ricerche sull'impatto della crisi su crescita e competitività e sulle sue ripercussioni sull'economia reale che è stata presentata in occasione dell'Assemblea di Rete Imprese Italia.

La trappola della depressione

Il fattore che avvita la situazione odierna, di fatto saldando in un unico episodio le recessioni del 2008-09 e del 2011-12, è il passaggio senza soluzione di continuità fra la componente esterna (lo shock finanziario internazionale) e quella domestica (lo shock fiscale legato alla grande restrizione del bilancio pubblico). La combinazione di shock esclude l'innesco di dinamiche compensative (la domanda interna che assorbe lo shock sulla domanda estera e viceversa) e sta provocando una vera e propria "trappola della depressione". Particolarmente colpite sono, nella successione dei due shock, l'industria manifatturiera e le costruzioni, mentre il settore del commercio soffre per il progressivo dimagrimento dei consumi delle famiglie.

Rischio occupazione

L'elemento di massima criticità sta ora diventando l'occupazione. Si contrappongono due spinte di segno opposto: da una parte le imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, che ritengono la recessione determinata da fattori esogeni e quindi, in attesa di un miglioramento del clima congiunturale, hanno cercato in ogni modo di preservare i posi di lavoro; dall'altra parte, l'esigenza di avviare processi di ristrutturazione ed efficientamento delle produzioni, che diviene più pressante al prolungarsi della crisi. Il 2012 ha segnato il punto in cui la seconda forza ha preso il sopravvento sulla prima. Il tasso di disoccupazione ha infatti registrato lo scorso anno un aumento (2,3 punti) che è il massimo del dopoguerra e sta ora avvicinando il livello di massimo storico del 12%. S'impone d'altronde alle imprese un recupero di produttività, senza il quale la crisi si tramuterebbe in una permanente perdita di competitività. Già negli ultimi sei anni, tra il 2007 e il 2013, la competitività italiana è diminuita del 5,2% mentre quella tedesca, nello stesso periodo, è aumentata di oltre il 6%. In assenza di una sensibile accelerazione della crescita, le imprese potrebbero trovarsi nella necessità di operare tagli di occupazione compresi fra 400 e 650mila unità.

Un obiettivo da perseguire: la via dello sviluppo

Le previsioni ufficiali delineano un percorso di uscita dalla recessione di tipo inerziale, con bassi tassi di crescita, insufficienti a recuperare i livelli di prodotto pre-crisi. La prospettiva di registrare, dopo una crisi di tali dimensioni, saggi di crescita contenuti - inferiori a quelli prevalenti prima del 2007 - non può essere considerata soddisfacente. Si pone la questione di fissare obiettivi più ambiziosi di quelli contemplati dal DEF 2013. Un obiettivo minimo potrebbe essere l'aumento di almeno lo 0,5% del tasso medio di crescita del Pil, nel periodo 2014-2017, portandolo dall'1,4% stimato dal DEF in prossimità del 2% consentendo, così di recuperare il valore 2007. E' questa la "via dello sviluppo" che bisognerebbe provare a percorrere.

Stimolare maggiori investimenti delle imprese

Una nuova "via dello sviluppo" passa in primo luogo per un rafforzamento della dinamica di accumulazione, ossia per un aumento degli investimenti delle imprese. Il modello CER mostra come sia forte la sensibilità degli investimenti rispetto ai livelli dei tassi di interesse reali sui prestiti bancari, dell'aliquota IRAP, del rapporto IRES/Pil. Interventi capaci di incidere su questi tre elementi, nello specifico una riduzione contestuale di un punto del tasso reale sui prestiti e di un punto della quota di Ires e Irap sul Pil consentirebbero di imprimere un'iniziale spinta aggiuntiva agli investimenti pari a circa il 3% determinando una maggiore crescita economica di 0,7 punti. In valori assoluti, il Pil reale risulterebbe più elevato di 33 miliardi. L'impulso sugli investimenti determinerebbe anche un iniziale aumento della produttività dello 0,5%, per metà riassorbito nel successivo biennio, associato a una riduzione a regime di cinque decimi di punto del tasso di disoccupazione. Diverrebbe cioè possibile recuperare competitività senza per questo dover diminuire il numero degli occupati, invertendo gli andamenti correnti. Dal lato del bilancio pubblico, un simile intervento necessiterebbe inizialmente di un finanziamento pari allo 0,9% del Pil per evitare un aumento del debito pubblico.

Eliminare il drenaggio fiscale

Un possibile intervento riguarda l'eliminazione del fiscal drag. Secondo le stime del CER il valore cumulato nel periodo 2007-12 è pari a 10 miliardi. Inoltre, a partire dal 2013 il valore annuo del fiscal drag sarà pari a 3 miliardi. Eliminare questo prelievo addizionale che grava sulle famiglie italiane con una riduzione IRE iniziale di 10 miliardi e poi di 3 miliardi nei due anni successivi porterebbe a una crescita aggiuntiva del Pil di mezzo punto percentuale (circa 23 miliardi di euro) con benefici prevalenti sulla domanda interna. Già nel primo anno i consumi privati beneficerebbero di un aumento di sette decimi di punto rispetto allo scenario base. Un impatto positivo di cinque decimi di punto è atteso anche sugli investimenti. Sulla produttività si avrebbero effetti positivi il primo anno, che verrebbero parzialmente riassorbiti nel successivo biennio. La rinuncia al drenaggio fiscale determinerebbe tuttavia un aumento iniziale dell'indebitamento pubblico di 0,5 decimi di punto. L'intervento necessiterebbe pertanto di un'apposita copertura. Un intervento di tal fatta assumerebbe però significato ben più ampio se finalizzato non solo a restituire una immediata disponibilità finanziaria alle famiglie, ma anche a costruire un rapporto più equo fra fisco e contribuenti, alimentando un circuito di fiducia che costituirebbe di per sé un fattore di stimolo per gli investimenti e quindi di crescita aggiuntiva, attraverso cui evitare l'aumento dell'indebitamento.

Il ruolo della PA

Oltre che per un rilancio di consumi e investimenti, la via dello sviluppo passa per un recupero di efficienza della Pubblica Amministrazione, un campo di riconosciuta carenza del nostro paese e uno degli elementi che frenano gli andamenti della competitività. Come si riconosce nel Piano nazionale di riforma (PNR 2013, p. 63) "la PA svolge un ruolo fondamentale per la crescita e lo sviluppo delle attività produttive, ma spesso impone oneri e procedure eccessive che ostacolano l'iniziativa imprenditoriale e facilitano la corruzione. Per evitare che questa situazione ristagni, è importante potenziare l'opera di semplificazione amministrativa con una cospicua riduzione delle procedure inutili, mantenendo una verifica costante dell'effettività delle misure adottate". Una simulazione è stata svolta dal CER, valutando gli effetti macroeconomici di una riduzione del 2% del saggio medio di variazione del prezzo dei servizi pubblici resi a cittadini e imprese, a sua volta riconducibile a una maggiore efficienza nella produzione degli stessi. Una simile riduzione potrebbe portare a un incremento del tasso di crescita dello 0,5%. L'impulso maggiore passerebbe per gli investimenti (+0,5%) e per la produttività (+0,4%), mentre non comporterebbe aggravi per le finanze pubbliche con un impatto iniziale nullo sull'indebitamento/Pil. Nel complesso, l'azione della Pa su sé stessa, una sorta di autoriforma, si conferma un elemento centrale di una strategia di rilancio dell'economia italiana dopo la crisi, rappresentando un ulteriore stimolo per la ripresa degli investimenti delle imprese.

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