Anche la spending review diventa occasione per aumentare le imposte. E’ davvero il colmo soprattutto se si tiene conto che la pressione fiscale "ufficiale" è ormai vicina al 46% (siamo terzi in Europa, dopo Danimarca e Svezia) ed il prelievo sul lavoro è da primato con sette punti in più della media europea.
L’attesa di imprese e famiglie è invece nella direzione opposta ovvero
verso la riduzione delle tasse e, in particolare, dell’Irpef e del cuneo
fiscale.
Un segnale positivo dal Governo era giunto ed ha riguardato la rinuncia ad aumenti dell’Iva così come fa ben sperare la fermezza con la quale si procede su alcuni tagli di spesa come è nel caso della riduzione del numero delle Province. Si tratta di interventi utili, ma non sufficienti, che non compensano il “saccheggio” di Regioni ed Enti locali che mantengono molto alto il livello di spesa pubblica e poco fanno per ridurre sprechi e spese inutili.
Eppure uno studio Confesercenti sugli ultimi provvedimenti fiscali evidenzia che siamo purtroppo in presenza di un ulteriore appesantimento della pressione fiscale a seguito dell’aumento strisciante (+0,6 punti di aliquota dell’addizionale regionale all’Irpef), presentato come un "semplice" anticipo (gennaio 2013) dell’aumento già fissato (dal 2014) dalle norme sul federalismo regionale, lasciato alla "discrezionalità" delle otto Regioni in deficit sanitario (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Calabria, Piemonte, Puglia).
La conseguenza di questa misura (passata come emendamento al decreto sulla spending review) che, lungi dall’essere eventuale (le Regioni interessate non potranno non utilizzare l’opportunità loro offerta), rappresenta l’ennesimo intervento depressivo sull’economia e sul potere d’acquisto delle famiglie.
Un intervento che:
Eppure uno studio Confesercenti sugli ultimi provvedimenti fiscali evidenzia che siamo purtroppo in presenza di un ulteriore appesantimento della pressione fiscale a seguito dell’aumento strisciante (+0,6 punti di aliquota dell’addizionale regionale all’Irpef), presentato come un "semplice" anticipo (gennaio 2013) dell’aumento già fissato (dal 2014) dalle norme sul federalismo regionale, lasciato alla "discrezionalità" delle otto Regioni in deficit sanitario (Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia, Calabria, Piemonte, Puglia).
La conseguenza di questa misura (passata come emendamento al decreto sulla spending review) che, lungi dall’essere eventuale (le Regioni interessate non potranno non utilizzare l’opportunità loro offerta), rappresenta l’ennesimo intervento depressivo sull’economia e sul potere d’acquisto delle famiglie.
Un intervento che:
- da solo, determinerà un aumento di prelievo dell’ordine di 1,9 miliardi, a carico dei cittadini delle otto Regioni interessate;
- si va ad aggiungere ad altri analoghi aumenti varati nella seconda metà del 2011. Quello (manovra “salva Italia”) che ha maggiorato di 0,33 punti l’addizionale regionale Irpef, per complessivi 2,1 miliardi). Quello (manovra di agosto) che ha consentito ai Comuni di portare al massimo l’addizionale comunale all’Irpef , per un prelievo atteso dell’ordine di 1,7 miliardi.
Insomma, in pochi mesi e per effetto di queste tre misure, il gettito delle addizionali Irpef è cresciuto di quasi 6 miliardi l’anno, con un’impennata di oltre il 50% rispetto al gettito realizzato nel 2010. Con un effetto non secondario (poco meno di mezzo punto) in termini di crescita della pressione fiscale. E con implicazioni di rilievo per ogni famiglia italiana che – accanto agli altri aumenti impositivi (Imu, tassa di soggiorno, Iva…) e tariffari – ha subito un maggior prelievo pari in media a 210 euro oltre i 350 già pagati per le addizionali nel 2010.
Va ricordato che l’aumento di prelievo determinato dal fisco locale appare tanto più significativo se si va oltre i valori medi. In questo caso è possibile rilevare differenze che concretizzano vere e proprie distorsioni territoriali. In sostanza, a pagare il peso degli aumenti sono soprattutto i territori più poveri, quelli contraddistinti da redditi più bassi e da condizioni sociali più pesanti (ridotti livelli occupazionali, maggiori carichi di famiglia). Laddove le realtà del Paese più ricche sopportano un prelievo locale più contenuto e comunque sufficiente ad assicurare il funzionamento delle amministrazioni.
Accade così che l’addizionale regionale che, dopo quest’ultimo aumento, graverà sui contribuenti di Sicilia, Calabria e Molise (2,63%) sarà del 114% in più rispetto all’onere subito da trentini, friulani, veneti, valdostani e toscani (1,23%). In concreto, per un reddito di 30000 euro, il contribuente calabrese dovrà 789 euro l’anno (con un aumento di 180 euro per effetto dell’aumento appena inserito nel decreto sulla spending review). E la sua penalizzazione rispetto ai contribuenti delle Regioni più “virtuose” (che sullo stesso reddito dovranno “solo” 369 euro) toccherà i 420 euro (più di un euro al giorno). Una penalizzazione che, ovviamente, aumenterà proporzionalmente all’aumentare del reddito.
Ancora più profonde sono le distorsioni che si creano considerando insieme l’addizionale regionale e quella comunale. Consideriamo in proposito ciò che accade in alcune città per il solito livello di reddito (30 mila euro).
Il livello di prelievo più elevato lo si trova a Catanzaro, con un 3,43% , 1029 euro l’anno, dovuti a Comune e Regione. All’opposto troviamo realtà come Bolzano e Firenze in cui si combina una scelta minimale del fisco comunale (0,2% l’aliquota) e un prelievo regionale limitato all’aliquota base (1,23%) senza maggiorazioni di sorta. La differenza è sostanziosa: si tratta di 600 euro (+ 140%) che pesano in più ogni anno sulle spalle del contribuente calabrese.
Ma il fenomeno è solo leggermente più contenuto nel caso di Roma, Napoli e Palermo, tutte realtà in cui le difficoltà dei bilanci comunali si saldano con la situazione deficitaria sul versante della sanità regionale. Il contribuente romano paga 969 euro di addizionali, il doppio del fiorentino. E quello napoletano e palermitano si collocano poco al di sotto, con 939 euro.
Insomma, chi pensava che gli aumenti di tasse erano finiti e che presto si sarebbero aperte prospettive di riduzione del prelievo ha dovuto ricredersi. Ed è paradossale che ciò sia avvenuto quando ormai sembrava che l’azione del governo fosse destinata ad esercitarsi unicamente sul versante dei tagli alla spesa pubblica; utilizzando, addirittura, un veicolo legislativo (il decreto sulla spending review) nato proprio per iniziare a mettere ordine nella spesa pubblica
Si ripropone, dunque, l’esigenza e l’urgenza di un deciso intervento di riduzione del prelievo da compensare con un chiaro e forte intervento sulla spesa pubblica, ridisegnando la presenza delle Istituzioni nel territorio con l’accorpamento dei micro-comuni e delle molte società di servizi alle dipendenze degli enti locali ed una riduzione sostanziale delle comunità montane, delle consulenze e degli ancora troppo elevati costi della politica.
Insomma, in pochi mesi e per effetto di queste tre misure, il gettito delle addizionali Irpef è cresciuto di quasi 6 miliardi l’anno, con un’impennata di oltre il 50% rispetto al gettito realizzato nel 2010. Con un effetto non secondario (poco meno di mezzo punto) in termini di crescita della pressione fiscale. E con implicazioni di rilievo per ogni famiglia italiana che – accanto agli altri aumenti impositivi (Imu, tassa di soggiorno, Iva…) e tariffari – ha subito un maggior prelievo pari in media a 210 euro oltre i 350 già pagati per le addizionali nel 2010.
Va ricordato che l’aumento di prelievo determinato dal fisco locale appare tanto più significativo se si va oltre i valori medi. In questo caso è possibile rilevare differenze che concretizzano vere e proprie distorsioni territoriali. In sostanza, a pagare il peso degli aumenti sono soprattutto i territori più poveri, quelli contraddistinti da redditi più bassi e da condizioni sociali più pesanti (ridotti livelli occupazionali, maggiori carichi di famiglia). Laddove le realtà del Paese più ricche sopportano un prelievo locale più contenuto e comunque sufficiente ad assicurare il funzionamento delle amministrazioni.
Accade così che l’addizionale regionale che, dopo quest’ultimo aumento, graverà sui contribuenti di Sicilia, Calabria e Molise (2,63%) sarà del 114% in più rispetto all’onere subito da trentini, friulani, veneti, valdostani e toscani (1,23%). In concreto, per un reddito di 30000 euro, il contribuente calabrese dovrà 789 euro l’anno (con un aumento di 180 euro per effetto dell’aumento appena inserito nel decreto sulla spending review). E la sua penalizzazione rispetto ai contribuenti delle Regioni più “virtuose” (che sullo stesso reddito dovranno “solo” 369 euro) toccherà i 420 euro (più di un euro al giorno). Una penalizzazione che, ovviamente, aumenterà proporzionalmente all’aumentare del reddito.
Ancora più profonde sono le distorsioni che si creano considerando insieme l’addizionale regionale e quella comunale. Consideriamo in proposito ciò che accade in alcune città per il solito livello di reddito (30 mila euro).
Il livello di prelievo più elevato lo si trova a Catanzaro, con un 3,43% , 1029 euro l’anno, dovuti a Comune e Regione. All’opposto troviamo realtà come Bolzano e Firenze in cui si combina una scelta minimale del fisco comunale (0,2% l’aliquota) e un prelievo regionale limitato all’aliquota base (1,23%) senza maggiorazioni di sorta. La differenza è sostanziosa: si tratta di 600 euro (+ 140%) che pesano in più ogni anno sulle spalle del contribuente calabrese.
Ma il fenomeno è solo leggermente più contenuto nel caso di Roma, Napoli e Palermo, tutte realtà in cui le difficoltà dei bilanci comunali si saldano con la situazione deficitaria sul versante della sanità regionale. Il contribuente romano paga 969 euro di addizionali, il doppio del fiorentino. E quello napoletano e palermitano si collocano poco al di sotto, con 939 euro.
Insomma, chi pensava che gli aumenti di tasse erano finiti e che presto si sarebbero aperte prospettive di riduzione del prelievo ha dovuto ricredersi. Ed è paradossale che ciò sia avvenuto quando ormai sembrava che l’azione del governo fosse destinata ad esercitarsi unicamente sul versante dei tagli alla spesa pubblica; utilizzando, addirittura, un veicolo legislativo (il decreto sulla spending review) nato proprio per iniziare a mettere ordine nella spesa pubblica
Si ripropone, dunque, l’esigenza e l’urgenza di un deciso intervento di riduzione del prelievo da compensare con un chiaro e forte intervento sulla spesa pubblica, ridisegnando la presenza delle Istituzioni nel territorio con l’accorpamento dei micro-comuni e delle molte società di servizi alle dipendenze degli enti locali ed una riduzione sostanziale delle comunità montane, delle consulenze e degli ancora troppo elevati costi della politica.
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