venerdì 30 marzo 2012

Giovanni Pascoli e il centenario della sua morte


L’eterno fanciullino, i canti del suo amato Castelvecchio di uno dei più grandi interpreti della letteratura italiana del Novecento









Quest’anno ricorre il centenario della morte di Giovanni Pascoli, il grande poeta romagnolo, ritenuto quest’ultimo per la sua maestosità poetica dopo il Leopardi, l’icona anzi il «monumento», se così lo possiamo definire, della nostra letteratura italiana del XXI secolo. Sicuramente chi non ricorda di aver letto, tra i banchi di scuola, le sue più incantevoli poesie decadentiste come la famosissima e toccante “X Agosto”, oppure “La cavalla storna”, “Il gelsomino notturno”, “La mia sera” e i brani del suo celeberrimo trattato sul “Il fanciullino” apparso per la prima volta in Italia nel 1897 sulla rivista fiorentina “Il Marzocco”. Poesie che nel corso degli anni hanno rivoluzionato la storia della cultura italiana. Cento anni sono passati dalla sua scomparsa e le opere del Pascoli risultano tutt’ora ancora attuali. Come se le sue rime sono state appena scritte, fresche di giornata, come si suol dire, nonostante viviamo in un clima di grande crisi generale. Ricordi effimeri, la quotidianità familiare, fanciullezza e la ricerca quasi «ossessiva» e disperata della verità sull’omicidio del padre, temi cari che solo uno come il Pascoli ha saputo descrivere in vita con tanta magnificenza. Impressioni di una dura esistenza, a volte addolcite con un pizzico di «fanciullino» e di antichi echi di poeti lirici greci che fanno di Giovanni Pascoli, la «penna d’oro» della poesia italiana dei giorni nostri. Giovanni Agostino Placido Pascoli, questo era il suo nome completo, nasce la mattina del 31 dicembre del 1855 a San Mauro di Romagna, oggi San Mauro Pascoli, comune della provincia di Forlì-Cesena. La sua era una famiglia numerosa, benestante e molto religiosa. Un nido familiare molto unito e sereno, senza nessuna ombra di difficoltà economica. Difatti, grazie al lavoro proficuo e ben retribuito del padre e i vari possedimenti della cara madre, il piccolo Giovanni Pascoli tranquillamente ebbe modo di studiare e di formarsi in campo letterario, che era appunto la sua vera passione. Dopo la scuola, Giovanni Pascoli amava trascorrere il tempo immerso nella natura e osservando quest’ultimo le bellezze paesaggistiche della sua amata Romagna, oltre a leggere libri e tentando di tradurre le opere e i frammenti dei più grandi autori greci e latini. Una passione che lo porterà a buon fine quando diventerà in futuro un brillante e stimato docente di greco e latino. Nell’agosto del 1867, precisamente il giorno in cui si festeggia San Lorenzo martire, il piccolo poeta aveva appena undici anni, quando in casa Pascoli durante l’ora di cena la famiglia venne purtroppo a conoscenza della tragica morte del loro padre, Ruggero Pascoli, ucciso quest’ultimo con un colpo di fucile nei pressi di Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì-Cesena. Un terribile delitto che sconvolse la famiglia e conoscenti della povera vittima e padre di dieci figli che di mestiere faceva, come spesso viene ricordato dal poeta, l’amministratore presso i principi Torlonia oltre a ricoprire altre cariche. Un lutto che segnerà per sempre l’animo fanciullesco di Giovanni Pascoli, soprattutto quando siamo in una fase molto delicata della nostra tenera età, cioè l’adolescenza. Un tarlo che lo porterà fino all’esasperazione pur di arrivare a capire cosa è realmente accaduto quel triste e misterioso giorno di San Lorenzo dove suo padre a bordo di un calesse e di ritorno a casa venne barbaramente trucidato in un imboscata da persone ignote e senza un movente. Infatti, il delitto Pascoli, rimase impunito cioè senza un colpevole. Una mancata impunibilità e un triste ricordo nel cuore che spinsero il sommo poeta a comporre durante la dura fase della sua maturità e soprattutto lontano dai luoghi dell’infanzia, le due più famose poesie autobiografiche, “X Agosto” e “La cavalla storna”. Dopo la tragica morte del capofamiglia e il susseguirsi di eventi luttuosi che man mano colpiva come una lunga macchia d’olio la famiglia, i problemi economici e i primi segni di «crisi esistenziale» che fecero del Pascoli un giovinetto ribelle e nello stesso tempo di animo introverso. Tra la fine del 1871 e gli inizi del 1872, Giovanni Pascoli abbandonò gli studi presso il collegio dei padri Scolopi di Urbino per trasferirsi a Rimini dove si iscrisse al Liceo classico “Giulio Cesare”, una scelta ragionevole per completare a pieno le sue attitudini in ambito letterario e l’approfondimento dello studio della lingua greca e latina. Infatti, ripreso di nuovo a studiare e soprattutto incoraggiato dalle sue predilette sorelle, Ida e Maria, il Pascoli rinato e soddisfatto per i buoni profitti scolastici, inizia a scrivere e tradurre in italiano, le liriche dei suoi più amati autori antichi. Una vera e propria «metamorfosi dell’essenza umana» che lo stesso poeta lo racconterà di prima persona alla sua cara famiglia di uno strano episodio accaduto nel momento in cui, in preda alla depressione e alla disperazione, aveva tentato di suicidarsi. Infatti, prima dell’estremo atto per chiudere per sempre il sipario di una vita fatta di sofferenza interiore, di delusioni per il mancato futuro e senza una via d’uscita che il poeta per mezzo di una voce materna dall’aldilà lo incoraggia a continuare a studiare per sostenere e per riunire di nuovo come tanto tempo fa, quel nido familiare, purtroppo disgregato dopo la morte dei suoi genitori. Difatti, dopo questo sogno riparatore anzi di forte riflessione morale a non commettere un gesto tanto estremo che sicuramente avrebbe aggravato la situazione familiare, già minata da gravi problemi finanziari, che Giovanni Pascoli nel 1882 si laurea a Bologna a pieni voti discutendo la sua tesi su Alceo di Mitilene, il poeta greco antico autore quest’ultimo di famosissimi frammenti e contemporaneo-amico della poetessa Saffo. Durante gli studi universitari e le lunghe permanenze nelle biblioteche della città della “Torre degli asinelli” che Giovanni Pascoli conobbe il grande erudito dei famosi versi di “Odi barbare” cioè Giosuè Carducci, il premio Nobel per la letteratura conferito al poeta toscano nel 1906, colui che incoraggiò il grande fanciullino romagnolo a laurearsi per poter finalmente insegnare nelle scuole e per garantire un tetto dove poter vivere serenamente con le sue sorelle.  Difatti così avvenne quando il poeta dopo varie cariche di docente di greco e latino nei licei prima a Matera, poi dopo qualche anno a Massa, comune della provincia di Massa-Carrara, Pisa, Livorno, Firenze, Messina ed infine a Bologna prendendo il posto del Carducci dopo la sua morte avvenuta il 16 febbraio del 1907. Sul finire del 1891 e fino agli inizi del nuovo secolo, Giovanni Pascoli diede alla luce i primi versi poetici d’impronta virgiliana intitolato appunto con il nome di “Myricae”, le famose «tamerici» delle “Bucoliche”, considerata come la prima e grande opera dell’avanguardia mondiale in assoluto della nuova stagione letteraria italiana del Novecento. In questa raccolta fanno parte le poesie più sublimi e intime che il Pascoli ha partorito di sua mano durante il periodo d’oro della sua carriera, soddisfazione ottenuta grazie anche alla partecipazione e vincitore per ben tredici volte al concorso mondiale di poesia latina di Amsterdam. Onorificenze, proficui riconoscimenti letterari e una modesta posizione economica, il tutto per poter ritirarsi a vivere serenamente in un piccolo borgo della frazione di Castelvecchio, situato nel comune di Barga, in provincia di Lucca, ora attrazione turistica di migliaia di visitatori che ogni anno si recano a guardare con i propri occhi le stanze-studio, manoscritti e i luoghi storici dove il poeta ha vissuto e soprattutto ha scritto i suoi migliori componenti tra cui i memorabili e indimenticabili versi di “Canti di Castelvecchio”.  Dopo la ripubblicazione definitiva nella primavera del 1906 dei “Canti di Castelvecchio”, ricalcando le orme della poetica leopardiana per quanto riguarda il titolo dell’omonima opera, poi di seguito la diffusione in alcune testate giornalistiche di “Odi e Inni” e di “Nuovi poemetti”  nel 1909-1910 e la nascita di nuovi conflitti esistenziali che il poeta di nuovo risoffrì a causa di una grave malattia, forse colpito di cirrosi epatica o secondo studi recenti da un cancro allo stomaco, portandolo di seguito alla morte a cinquantasei anni nella casa presa in affitto a Bologna il 6 aprile del 1912. Per sua volontà testamentaria, Giovanni Pascoli venne sepolto all’interno della piccola cappella di famiglia a Barga, la famosa frazione di Castelvecchio, oggi chiamata in suo onore con il nome di Castelvecchio Pascoli, dove tutt’ora riposa insieme a sua sorella prediletta Mariù come la chiamava affettuosamente da piccola il poeta dell’eterno fanciullino, «che è dentro di noi», come egli stesso lo definì all’inizio dei suoi venti brevi capitoli. Infatti, per ricordare la figura del grande poeta romagnolo scomparso esattamente cento anni fa, vi invito a tutti di leggere una delle sue più grandi elegie pascoliane, la famosissima e commuovente, “X Agosto”, diffusa per la prima volta in Italia nel 1887 nella raccolta di “Myricae”.   

Claudio Esposito

“X Agosto”.
San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
Ora è là come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido
portava due bambole in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

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