domenica 18 marzo 2012

Dinastie d'Italia, quanto conta il familismo negli ordini professionali

Mentre il Parlamento vara le liberalizzazioni arriva in libreria uno studio sul peso dei legami familiari nelle professioni.









Proprio nei giorni in cui è in via di approvazione, fra molte polemiche, l'ennesimo provvedimento sulle liberalizzazioni, arriva in libreria Dinastie d'Italia. Gli ordini tutelano davvero i consumatori? (Università Bocconi Editore, 160 pagg., 18 euro). Il volume, a cura di Michele e Pellizzari, docente di economia del lavoro all'Università Bocconi, e Jacopo Orsini, giornalista del Messaggero, prefazione di Tito Boeri, è una approfondita analisi del peso del familismo nelle professioni regolamentate e una cronaca della fortissima, e spesso insormontabile, resistenza che un Parlamento composto per oltre un terzo da iscritti agli ordini mette in campo a ogni tentativo di riforma. Pubblichiamo una parte dell'ultimo capitolo.

di Michele Pellizzari e Jacopo Orsini
L’attenzione di solito è rivolta a cosa non va nel funzionamento degli albi. Si denunciano – e giustamente – la scarsa trasparenza dei metodi di accesso e gli scandali che periodicamente colpiscono l’organizzazione degli esami di Stato. Si contestano la gestione degli organismi di vertice degli ordini e i privilegi della casta degli iscritti, oltre alla forza delle lobby degli avvocati-onorevoli e degli altri professionisti che in Parlamento bloccano ogni tentativo di riforma. Sono mancati invece finora studi che permettessero di valutare, a livello empirico, l’effetto delle restrizioni e delle barriere all’ingresso in rapporto alla qualità dei servizi offerti dai professionisti.

Dalle analisi che abbiamo condotto sugli elenchi nominativi degli iscritti a undici ordini è emerso che in otto professioni su undici il grado di familismo è più alto di quello registrato fra i lavoratori autonomi generici. Per medici, avvocati, farmacisti e giornalisti questo indicatore è quattro volte superiore, anche se sempre meno della metà di quello che si registra per i docenti universitari. Abbiamo poi costruito indicatori della qualità delle prestazioni offerte in sei professioni e mostrato come i legami familiari siano più deboli in mercati dove è più forte la richiesta dei servizi dei professionisti. Per due occupazioni osservate, commercialisti e consulenti del lavoro, abbiamo inoltre trovato prove chiare e statisticamente significative di peggiori risultati sociali dove il familismo è maggiore. Nelle zone dove le connessioni familiari – calcolate in base al nostro indice di informazione dei cognomi – sono più forti, l’evasione fiscale è più alta e c’è una litigiosità maggiore fra lavoratori e aziende. Per altre tre occupazioni – geologi, medici e ostetriche – abbiamo scoperto invece l’opposto: laddove i legami familiari sono più alti, si riscontra una migliore qualità sociale dei servizi. Per gli avvocati non siamo riusciti invece a trovare una risposta univoca.

Se la relazione fra le connessioni familiari e un accesso facilitato alla professione riflettesse solo una formazione di conoscenza specifica all’interno della famiglia, non ci sarebbe nulla di male. Un avvocato capace insegna il mestiere al figlio, che diventa a sua volta bravo in quell’occupazione e avrà più probabilità di riuscire a iscriversi all’albo rispetto a chi non ha parenti già attivi nella professione. Il problema vero è che spesso l’incidenza del cognome – come abbiamo visto – è sintomo di pratiche nepotiste e corporative che riducono la qualità dei servizi. E quando la forza delle connessioni familiari consente a individui con scarse capacità di diventare commercialista, avvocato o medico più facilmente rispetto agli altri aspiranti, è evidente che la regolamentazione non funziona o non funziona per lo scopo per cui è stata disegnata. [...]

La rivolta in Parlamento degli avvocati-onorevoli dell’estate 2011, pronti a far cadere il governo se avesse osato liberalizzare le professioni, e l’attivismo della lobby degli ordini contro tutti i tentativi di riforma, provano che le resistenze da vincere sono fortissime. D’altronde, in Italia, è utile ricordarlo, gli occupati nelle ventotto professioni regolamentate sono circa 1,3 milioni (ma alcune stime di parte parlano di oltre 2 milioni): in termini di consenso elettorale, considerando anche i familiari, si tratta di una massa notevole di persone, in grado di scoraggiare qualsiasi politico dall’idea di inimicarsi i professionisti con provvedimenti sgraditi. «Sulle liberalizzazioni le resistenze sono pazzesche», ammette il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera.

[...] Due sono in particolare le misure che si potrebbero suggerire e che potrebbero essere prontamente attuate a costo zero: eliminare i conflitti d’interesse e puntare su giovani e consumatori. La ragione è semplice: gli operatori già presenti sul mercato hanno un chiaro interesse a selezionare nuovi professionisti che, una volta entrati, non siano dei temibili concorrenti. Va quindi limitato il più possibile, o eliminato del tutto, qualsiasi conflitto di interesse negli esami di accesso. Le prove non dovrebbero essere organizzate o valutate dalle stesse persone che diventeranno diretti concorrenti dei nuovi entranti; quando possibile, i test dovrebbero essere preparati e corretti da esperti che non siano già dentro la professione, come i giudici per gli avvocati o i professori universitari per le altre occupazioni.


 


Fonte: Il Messaggero.it




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